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In ricordo di Vittorio Boarini e de “Il cerchio di gesso”

Riprendiamo l’articolo di zic.it in ricordo di Vittorio Boarini.

Nel 1977, pochi mesi dopo la rivolta delle giornate di marzo, in una città ancora profondamente sconvolta e divisa, un gruppo di intellettuali fondò una rivista che dissentiva dalla politica e dalla cultura egemone e che intendeva ricercare nuovi criteri di lettura della realtà.

Il ricordo di Vittorio Boarini che si è tenuto venerdì 5 novembre presso la biblioteca della Cineteca comunale, dove era stata allestita la camera ardente, ha visto la partecipazione di tantissime persone. Non poteva essere altrimenti, Boarini, nel corso della sua vita intensa, aveva lasciato molti segni della sua attività nella nostra città. Prima aveva partecipato all’ideazione della Commissione Cinema del Comune di Bologna, poi, nel 1974, aveva progettato e fondato la Cineteca comunale, diventata negli anni successivi una delle più importanti istituzioni cinematografiche del nostro Paese (ammessa nella Federazione internazionale degli archivi del film). Era stato direttore della Mostra Internazionale del Cinema libero di Porretta, un festival cinematografico d’avanguardia, che, quando venne trasferito a Bologna, si identificò con la rassegna “Il cinema ritrovato”. Nel 1983 aveva promosso, insieme alla Biennale di Venezia, il festival “L’immagine elettronica”. Nel frattempo, la Cineteca comunale aveva dato vita all’Immagine ritrovata, il primo laboratorio dedicato al restauro dei film. Vittorio Boarini aveva anche insegnato, prima all’Accademia di Belle Arti, poi, dal 2000 al 2007 al Dams (Cinematografia documentaria e sperimentale).

Tra i diversi libri che ha scritto, uno dei più famosi è “Avanguardia e Restaurazione”, pubblicato dalla casa editrice Zanichelli. Boarini lo firmò insieme al suo amico di sempre, il critico letterario e cinematografico Pietro Bonfiglioli. Nel volume i due autori tracciarono un ampio e articolato panorama della cultura mondiale del Novecento.

Nel 2001 a Vittorio Boarini toccò pure la direzione della Fondazione Fellini di Rimini, per la quale fondò la rivista di studi felliniani “Fellini Amarcord”.

Molti di questi “lasciti culturali” sono stati rammentati negli articoli e nei servizi giornalistici che hanno descritto l’opera e la figura intellettuale di Boarini, quasi tutti invece (forse per la giovane età dei giornalisti o per una più probabile consultazione distratta dei motori di ricerca) si sono dimenticati di un pezzo importante della sua “eredità culturale”: la partecipazione alla rivista “Il cerchio di gesso”, uscita dopo la rivolta del marzo 1977.

Il titolo “Il cerchio di gesso” non era ispirato all’omonima opera di Bertolt Brecht ma ai rilievi della polizia scientifica in via Mascarella, il gesso era quello che cerchiava i fori dei proiettili sparati dai carabinieri contro Francesco Lorusso. La rivista aveva in copertina i buchi numerati e segnati di bianco sul muro della via dove l’11 marzo era stato ucciso lo studente di Lotta continua. In questo modo si alludeva chiaramente alla funzione del giornale che si poneva l’obiettivo di “cerchiare” i fatti e di “coagularsi” intorno ad essi.

“Il cerchio di gesso” non era una “rivista fiancheggiatrice” del movimento, anche se accolse di buon grado la collaborazione di ragazzi impegnati nel movimento, che infatti parteciparono, in piena autonomia, al lavoro redazionale. La “carsicità” dei percorsi sotterranei del movimento e le sue latenze non influenzarono la continuità del periodico, che venne definito una “rivista del dissenso”, per questo molto diversa da tutte le riviste sorte attorno al ’68 che venivano concepite come strumenti di propaganda politica e di lotta ideologico/dottrinaria.

Nel movimento del ‘77, però, i fondatori e i redattori della rivista (tra cui Gianni Scalia, Roberto Bergamini, Giulio Forconi, Pietro Bonfiglioli, Vittorio Boarini, Federico Stame, Paolo Pullega, Maurizio Maldini, Gianni D’Elia, Roberto Roversi ed altri) riconoscevano quell’evento rivelatore che trascinava con violenza al centro della contraddizione. Al centro del cerchio. Se la condizione costitutiva di quella che veniva chiamata la “società totale” era l’esclusione della critica, se il ruolo della politica dei partiti si riduceva all’organizzazione del consenso, allora la contraddizione poteva manifestarsi solo fuori dal contesto sociale ufficiale, nell’esistenza non socializzabile degli esclusi. Se la società si faceva “totale e assoluta”, chi non rientrava nei suoi criteri funzionali veniva emarginato nella cosiddetta “seconda società”, perciò il movimento giovanile venne salutato come un sintomo emergente di un necessario antagonismo a quella socializzazione emarginante.

La rivista si presentava così: «Il dissenso è critica senza sicurezza, è pensiero del di fuori, che si radica nell’esclusione. La sua fenomenologia è varia; perciò la rivista non ha una ideologia, essendo piuttosto critica dell’ideologia; non ha una linea politica, essendo piuttosto critica della politica».

Sfogliando il primo numero, coi suoi caratteri gotici e austeri, sembrava che non si fosse all’inizio di un discorso, ma piuttosto si era davanti al suo proseguimento: gli articoli sulla repressione o sul tecno-fascismo tiravano i fili di esperienze lontane, ma che avevano l’umiltà di ritornare sempre ai fatti.

Dar conto della infinita mole di materiale pubblicata da “Il cerchio di gesso” è impresa impossibile, anche perché ogni frase di quasi tutti gli interventi racchiudeva mille linee direzionali. Si scorgeva l’elaborazione di uno dei temi più necessari emersi nel movimento e cioè quello della legittimità dell’opposizione al capitale e allo Stato: non di un’opposizione che passivamente accettasse la tecnologizzazione e si facesse sua “costruttiva” complice, ma di un’opposizione radicale che si ponesse ancora le “domande sul senso della vita”.

Nelle pagine della rivista il movimento e il compromesso storico furono, di volta in volta, analizzati e sezionati, insieme ad alcuni fatti diversi di vita politica e di cronaca italiana e non. Che l’ombra di Officina (la rivista che anni prima avevano fatto Roversi, Scalia, Pasolini e Leonetti) si scorgesse dietro ogni facciata era abbastanza evidente, così come il bisogno mai placato di entrare con il proprio lavoro di scrittori, critici e poeti nelle cose e nei fatti.

Per segnalare alcuni temi affrontati da Vittorio Boarini sulla rivista abbiamo consultato l’intera raccolta de “Il cerchio di gesso” che si trova nelle stanze del Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”, presso Vag61.

In articolo intitolato “Contributo alla comprensione storica del 1977” Vittorio Boarini scrisse sul Compromesso storico: «I processi di socializzazione del capitalismo, che quale reazione all’eversione del Sessantotto si affermavano in tutto l’Occidente, assumevano nel nostro Paese la figura politica del compromesso storico, un progettato accordo fra i due maggiori partiti italiani, da sempre avversari, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, già anticipato, sembrava, da un governo di unità nazionale sostenuto dai comunisti, che avevano un loro esponente di spicco alla presidenza della Camera. Le forze politiche del cosiddetto arco costituzionale, praticamente tutte quelle rappresentate in Parlamento tranne l’estrema destra, si adoperavano, con qualche riluttanza del Partito Socialista, per fondere politico e sociale nella società totale, dove il politico pareva dissolversi nel sociale divenuto l’organizzazione politica del consenso».

Sulla nascita de “Il cerchio di gesso”, svelò dei particolari molto importanti: «Il movimento del ’77 e la rivolta studentesca provocata dall’omicidio di Francesco Lorusso da parte delle forze dell’ordine durante una manifestazione, fu l’elemento sintomatico che permise a un gruppo di intellettuali, in seguito definiti “del dissenso”, la comprensione di quanto stava accadendo (…)

La reazione degli studenti alla morte del loro compagno (11 marzo) determinò la messa in stato d’assedio della città, con l’uso da parte della polizia anche di carri armati. Per tre giorni Bologna, con la zona universitaria isolata subì un processo repressivo sostenuto dalla maggior parte dei media e dall’opinione pubblica benpensante (…)

Il giorno successivo allo scoppio della rivolta venne chiusa manu militari dalle forze dell’ordine Radio Alice, una “radio libera”, come venivano definite le emittenti innovative autogestite sorte in varie parti d’Italia, che trasmetteva in diretta gli scontri fra rivoltosi e polizia. La gravità di questo evento, fra l’altro tutti i redattori della radio erano stati arrestati, non sfuggì a quel gruppo di intellettuali ai quali abbiamo fatto cenno, che sei giorni dopo redassero e diffusero l’appello, pubblicato sul primo numero della rivista. L’adesione a questo richiamo alle libertà costituzionali minacciate, anche per il tono sostanzialmente garantista in cui fu redatto, fu enorme per quantità di firme raccolte e per l’autorevolezza dei firmatari.

L’impegno maggiore di alcuni dei promotori dell’appello fu di andare oltre l’appello stesso e consentire concretamente a Radio Alice di riprendere la propria attività. Su proposta dell’avvocato Mauro Mazzucato, Pietro Bonfiglioli, Gianni Scalia, Bernardino Farolfi, Concetto Pozzati, Carlo Gaiani e chi scrive comperarono per una cifra simbolica, con atto stipulato dal notaio Federico Stame, la Radio. Con la copertura dei nuovi proprietari i redattori superstiti poterono riprendere liberamente le trasmissioni e continuarle indisturbati. Ovviamente, le posizioni espresse da Radio Alice non riflettevano quelle dei proprietari, i quali pensarono di darsi uno strumento per comunicare le proprie riflessioni sugli eventi che avevano rovesciato “l’isola felice” in una città assediata. Così nasce “Il cerchio di gesso”».

In un articolo pubblicato su “Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna: 1968-2007. Arti, comunicazione, controculture” (vol. III, Bologna, CLUEB, 2007) Paolo Pullega, uno dei fondatori de Il cerchio di gesso ha scritto che per promuovere il “Documento per Radio Alice” si trovarono nell’ufficio di Vittorio Boarini, alla Cineteca di Bologna, e da lì cominciarono a telefonare leggendo il testo (redatto da Pietro Bonfiglioli) e raccogliendo le adesioni a cui risposero tanti intellettuali italiani, con l’esclusione di Umberto Eco che si rifiutò di firmare.

Nel settembre del 1977, in coincidenza con il Convegno europeo contro la repressione, organizzato a Bologna dal movimento (“nella città più libera del mondo”, come si disse allora) Il cerchio di gesso pubblicò l’Agenda, un numero speciale, in cui nell’editoriale, dedicato al sindaco Zangheri e al giudice Catalanotti, si scriveva: «La sindrome anti-giovanile, tipica della loro politica e cultura marzolina, non si è irrigidita in strumenti di repressione, perché fenomeni di tensione sociale hanno rotto il mito dell’isola emiliana. L’adesione attiva al progetto repressivo è specchio di un disegno politico che vorrebbe vedere le masse lavoratrici conquistare lo Stato. Ma fino ad ora ha solamente visto lo Stato conquistare le masse lavoratrici. Zangheri – Catalanotti nel paese degli specchi guardano se stessi per guardare il potere (…) Il Pci si nutre di questo progetto repressivo perché gli consente di dimostrare l’unità e la totalità della propria espansione verso il potere, arrivando anche dove lo Stato non arriva».

In quel numero speciale, Vittorio Boarini, nel suo articolo “L’etica erotica”, scriveva: «Il ’77 è l’anno del ritorno del rimosso. Un ritorno che si manifesta come sintomo minaccioso che incrina la “società di discorso” (il patto sociale stretto fra coloro che in questa società si riconoscono), proiettando contro di essa il “discorso dei di fuori” (il disconoscimento del patto da parte di coloro che ne sono esclusi (…)

Il problema della rivoluzione, rimosso dal nuovo patto sociale, è stato riproposto dal ritorno del rimosso, cioè dall’esplosione del desiderio con la sua implicita forza critica: un sintomo che sarebbe suicida non cogliere nel suo significato profondo o peggio ancora esorcizzarlo criminalizzandolo».

Che Vittorio Boarini fosse profondamente legato all’esperienza de “Il cerchio di gesso” se ne ebbe testimonianza anche alcuni anni fa, nel 2018, quando con Giulio Forconi e Giorgio Gattei, per la casa editrice Pendragon, curò un’antologia de “Il cerchio di gesso” (1977 – 1979). Sulla quarta di copertina la rivista venne descritta così: «Volle essere una voce indipendente, che dissentiva dalla politica e dalla cultura egemone per ricercare nuovi criteri di lettura della realtà».

Purtroppo, oggi, di intellettuali come Vittorio Boarini e come i suoi “sodali” de “Il cerchio di gesso” ce li possiamo solo sognare.

100714_Camera ardente William Michelini.Nella foto Boarini