Se n’è andato qualche giorno fa uno dei primi “grafici di movimento”, suoi tanti dei manifesti in serigrafia dell’autunno caldo bolognese. Nel ’69 e nei primi anni ’70, all’epoca dei comitati operai-studenti, fu molto attivo nei gruppi di intervento davanti alle fabbriche e contribuì alla nascita del comitato di base della Ducati Elettrotecnica.
La notizia della morte di Tati è apparsa il 5 agosto sui social media, nella pagina di qualche vecchio militante degli anni ’70. Nerio Tatini aveva 76 anni, ma col suo vero nome lo conoscevano in pochi, per tutti i suoi compagni e i suoi amici era sempre stato Tati. Del resto, come scriveva Valerio Evangelisti, un tempo, nel giro dei compagni, a tutti veniva affibbiato un soprannome, solo la polizia ti chiamava con le tue generalità. E così i tanti nomignoli e gli appellativi diventarono il modo più usuale per riconoscersi tra persone tra loro solidali. In più Tati, per la sua non gigantesca altezza e per quel pizzo alla vietnamita, faceva correre il pensiero a zio Ho Chi Minh, il presidente del valoroso popolo del Vietnam e ai piccoli guerriglieri vietcong che resistevano alla super potenza americana nella guerra che gli Usa avevano scatenato nella penisola indocinese.
Tati lavorava alla Sip (ai Telefoni di Stato), ma frequentava il giro degli universitari del movimento studentesco, quelli che si ritrovavano al bar Nazionale sotto le Due Torri e frequentavano le aule di via Zamboni. Insieme a quelli che facevano parte della componente “operaista” iniziò ad andare davanti ai cancelli delle fabbriche per parlare di unità operai-studenti, di aumenti uguali per tutti, di abolizione del cottimo, di riduzione d’orario e di nuovi strumenti di organizzazione operaia per superare le ormai stantie commissioni interne.
Obiettivi e parole d’ordine che agli inizi potevano sembrare idee balzane propagate da una strana specie di marziani ma che, poco dopo, diventarono i contenuti delle vertenze e delle rivendicazioni operaie dell’autunno caldo.
Sin dai primi momenti Tati dimostrò una capacità straordinaria di comunicare con gli operai e con le operaie, era bravissimo a persuadere, a incoraggiare e a garantire sulla bontà delle proposte portate avanti da quelli che fin da subito vennero chiamati “estremisti”. Allo stesso tempo, attraverso un uso accorto dell’ironia, dimostrò pure una grande capacità di tenere a bada i militanti del Pci e del Sindacato che vomitavano tutto il loro astio collerico contro quelle presenze non consone alla tradizione storica del movimento operaio.
Soprattutto, quando in dialetto bolognese, quei ragazzi venivano definiti dai guardiani dell’ortodossia piciista come dei “tentinbriga” (degli scansafatiche), Tati e i suoi compagni e le sue compagne rispondevano che quell’appellativo non lo ritenevano un’offesa fetente, dato che “il lavoro” non era più quell’elemento di emancipazione che aveva accompagnato tutte le epoche storiche precedenti del movimento dei lavoratori. Il nodo della questione stava appunto nel fatto che il lavoro non era più il baricentro attorno cui ruotava la pratica politica della classe operaia. “Scansare la fatica” prodotta dall’organizzazione capitalistica del lavoro, rifiutare le logiche originate dal lavoro salariato, costituirsi una propria autonomia politica e sociale attraverso le lotte e le rivendicazioni di obiettativi egualitari, questo era il punto.
La militanza politica di Tati trovò una sua forma organizzativa più precisa dopo l’assemblea dei comitati operai-studenti che si tenne all’Università nel mese di giugno del 1969. Si formarono gruppi di intervento strutturati davanti a diverse fabbriche bolognesi. La suddivisione in zone non fu solo geografica, ma anche politica. Nacquero due organizzazioni, Lotta continua e Potere Operaio, e ci fu una sorta di assegnazione di competenza. A Potere Operaio, insieme al Collettivo di Scienze Politiche e ai collettivi delle scuole medie superiori, toccarono le zona industriali di Santa Viola e Borgo Panigale, con la priorità dell’intervento alla Ducati Elettrotecnica, la più grande fabbrica di Bologna con più di 2000 dipendenti, di cui il 90% donne.
Tati, per le amicizie e le affinità politiche che aveva sviluppato in precedenza, scelse Potere Operaio e, quasi quotidianamente, si recava (finiti i suoi turni di lavoro) davanti ai cancelli della Ducati. Fu un grande maestro di “intervento operaio” per i ragazzi delle scuole medie che durante le vacanze estive andavano davanti allo stabilimento di Borgo Panigale. Il suo contributo, insieme alle altre compagne e agli altri di compagni di Potop, fu fondamentale per la nascita del Comitato di Base della Ducati Elettrotecnica, il primo Cub sorto in una fabbrica di Bologna.
Alle riunioni Tati non era tra quelli che prendevano più spesso la parola, i sui interventi non erano infarciti del “virtuosismo concettuale” che solitamente caratterizzava i “teorici” del gruppo operaista. Se decideva di intervenire era per proporre percorsi concreti: ci metteva quella “praticità” necessaria a far sì che un ragionamento teorico potesse trasformarsi in una scelta politica efficace.
La sinteticità e la chiarezza che caratterizzarono la sua militanza politica le trasportò anche nella sua grande passione per il disegno e la pittura, messi al servizio della lotta di classe. Con Franco Gelati (ormai scomparso da diversi anni) diede vita a un centro stampa del movimento, basato oltre che sui volantini ciclostilati su manifesti e locandine stampati in serigrafia. Una parte della sede di Potere Operaio di via Pietralata venne adibita a un efficiente laboratorio serigrafico capace di stampare manifesti quasi in tempo reale, secondo le esigenze di questa o quella lotta o campagna politica.
Il messaggio che qualche giorno dopo sarebbe apparso sui muri della città veniva dipinto da Tati direttamente su acetato, la carta da lucido trasparente necessaria alla prima fase del processo di serigrafia. Successivamente, con una lampada apposita, si impressionava il bozzetto sul telaio di seta e poi, sotto la guida di Gelati, tanti giovani militanti si facevano le ossa spargendo il colore con una spatola e tirandolo a mano con la racla in legno, facendo così uscire il manifesto stampato.
Influenzato dalla grafica dei manifesti del maggio ’68 francese, Tati disegnò decine e decine di locandine e manifesti, in cui oltre a un’immagine dal forte valore iconografico, veniva inserito un testo chiaro e semplice. Si può dire che tutta la linea grafica dell’autunno caldo bolognese fosse uscita dalle sue mani. Al Centro di documentazione dei movimenti “F. Lorusso – C. Giuliani”, nel fondo “Franco Gelati”, presto Vag 61, sono custodite tante delle locandine e dei manifesti disegnati da Tati (“I padroni sono tigri dicata”, “Più salario meno orario”, “1969 Offensiva Operaia”, “Lotta dura”, “Fiat – Comitato Operaio”, ecc.).
La militanza politica e “grafica” di Tati si concluse con lo scioglimento di Potere Operaio, la sua sensibilità e la sua curiosità lo accompagnarono nei suoi viaggi in giro per il mondo, il più lungo dei quali lo portò in Nepal dove rimase a vivere per alcuni anni.
Ritornando in Italia, se ne andò da Bologna per abitare in una casa in campagna dove poté dedicarsi con più assiduità alla passione per la pittura.
Ci è sembrato importante ricordare le tracce significative che Tati ha lasciato nei suoi anni di militanza. Saper fare lavoro politico “tra le masse” oggi è una virtù per lo più scomparsa. Sapere parlare con i “soggetti sociali di riferimento”, capirne i bisogni e saperli trasformare in obiettivi facilmente comunicabili, per poi riuscire a costruire momenti di lotta e di conflitto sociale per sostenerli, sono requisiti difficilmente rintracciabili. Al momento della sua scomparsa, ricordare chi di queste cose, un tempo, ne fu “maestro”, forse può essere utile per le nuove generazioni di attiviste/i e militanti… chissà.