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Quei “tentinbrîga” degli autonomi. 1969/1979: cronologia di dieci anni di lotte e insubordinazione nella “città/vetrina”

Ricostruire e ricordare le storie che hanno dato vita alla nascita di movimenti, organizzazioni politiche e conflitti è opera ardua e decisamente complessa. I ricordi e le ricostruzioni sono necessariamente condizionati dalla soggettività di chi si confronta con la narrazione. Anche se si è stati protagonisti. Tuttavia, per non permettere che le storie o la Storia con la “S” maiuscola siano ri-costruite attraverso “verità giudiziarie” le raccontiamo noi, con una visione partigiana, per dare lustro ai percorsi di lotta che ci hanno permesso di assaporare l’Assalto al Cielo.

Parlare dell’autonomia bolognese non lo si può fare al singolare. La pluralità delle storie, i tanti differenti percorsi politici e culturali e i soggetti sociali di riferimento fecero intraprendere molto spesso, a diverse generazioni di militanti, strade distinte. In molte e molti si ritrovarono poi insieme nell’orizzontalità delle assemblee del movimento del ’77, nella battaglia di strada in risposta all’assassinio di Francesco Lorusso e nelle barricate della rivolta nelle giornate di marzo del 1977.

Il cammino ritornò a divaricarsi dopo il convegno contro la repressione del settembre ’77, alla fine del quale si produssero tanti sentieri e rivoli.

Il documento (Quei “tentinbrîga” degli autonomi 1969/1979: cronologia di dieci anni di lotte e insubordinazione nella “città/vetrina”) che abbiamo prodotto come Centro di documentazione dei movimenti “F. Lorusso – C. Giuliani” si concentra su un arco temporale che va dal 1969 al 1979. Un lungo viaggio che vuole essere conoscenza, non memoria. Un viaggio che è continuato e che continua e che tiene conto del fatto che “fare politica” nell’Emilia “Rossa”, e a Bologna in particolare, ha rappresentato una sfida unica.

Nella capitale dell’eurocomunismo i militanti del Pci o della Cgil, non sopportando che ci potesse essere qualcuno alla loro sinistra, usavano gli epiteti più coloriti del dialetto bolognese per rapportarsi prima ai “mao mao” e ai “gruppettari” poi ai quei “provocatori degli autonomi”.

“Scansare la fatica” prodotta dall’organizzazione capitalistica del lavoro, rifiutare le logiche originate dal lavoro salariato, costruirsi attraverso le lotte e le rivendicazioni di obiettivi egualitari una propria autonomia politica e sociale, questo era il punto.

Era evidente che si producesse la frattura e ci si ritrovasse su sponde contrapposte.

La nostra narrazione parte con le lotte operaie dell’autunno caldo: dalle battaglie contro il cottimo alle istanze dell’egualitarismo, dai picchetti agli scioperi selvaggi, dalla riduzione d’orario all’autolimitazione del rendimento, dai comitati operai-studenti ai comitati di base.

Il “biennio rosso 1969/70” vide protagonisti anche gli studenti con le lotte all’università e nelle scuole. Il lavoro politico dei collettivi studenteschi si spostò poi dalle aule universitarie ai cancelli delle fabbriche e, da quell’intervento quotidiano, nacquero in diverse officine i Comitati di base Operai-Studenti. Soprattutto alla Ducati Elettrotecnica, la più grande fabbrica metalmeccanica della città, con una mano d’opera per il 90% femminile, questo legame si rafforzò durante la lunga vertenza contro il cottimo. Picchetti, scontri con i crumiri davanti ai cancelli, la repressione di polizia e carabinieri, le scorribande dei picchiatori fascisti prezzolati dal padrone, rafforzarono la necessità di un percorso organizzativo “autonomo” che diede vita al primo Comitato di Base sul territorio di Bologna.

Tra l’autunno del 1970 e l’inizio del 1971, i gruppi di ispirazione operaista, come Potere Operaio e Lotta Continua, allargarono il loro intervento politico alle scuole medie superiori. Nel giro di pochi mesi si formarono diversi collettivi d’istituto. Potere Operaio aveva mandato agitatori al Marconi, al Pacinotti, al Laura Bassi, alle Aldini, al Fioravanti e all’Istituto d’Arte. Lotta Continua, invece, entrò all’Itis, al Fermi e al Copernico. La miccia esplose in fretta: in poco tempo fu un rapido susseguirsi di scioperi studenteschi, cortei, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni degli istituti, assemblee studentesche, riunioni e collettivi. La radicalità e la rabbia di quei ragazzini cambiò il volto più “rassicurante” che il movimento, negli anni precedenti, aveva avuto con le agitazioni all’università. Voto unico, compiti in classe e interrogazioni collettive, libri e trasporti gratuiti, “no alla scuola dei padroni, no alla scuola come fabbrica di disoccupati”, questi gli obiettivi e le parole d’ordine.

Il 1971 fu anche l’anno in cui Lotta Continua lanciò lo slogan “Prendiamoci la città”, che fu anche il titolo del convegno nazionale che si sarebbe tenuto il 24 luglio. L’organizzazione extraparlamentare scriveva nel suo documento: «“Prendiamoci la città” è un progetto politico che guarda al sociale a tutto tondo… Si occupano le case di cui si ha necessità e ci si rifiuta, per la stessa ragione, di pagare l’affitto… Se si prendono i trasporti gratis o si fa la spesa politica ai supermercati, è perché ne abbiamo bisogno… Riappropriarsi violentemente della realtà, occupare la metropoli col vitalismo del movimento e con l’aggressività di parole d’ordine irraggiungibili… Dobbiamo fare emergere il sovversivismo ancora inespresso organizzandolo nella lotta… Noi dobbiamo ipotizzare un processo rivoluzionario in cui dall’autonomia operaia delle catene produttive, si passi alla fase in cui il proletariato “si prende la città”, avendo come obiettivo la creazione delle “basi rosse”, dentro le quali l’interferenza del potere borghese è limitata sempre di più».

La declinazione concreta di questa parola d’ordine portò, ai primi di luglio del ’71, alla prima grande occupazione di case a Bologna. Avvenne nel quartiere Pilastro e riguardò una palazzina dello Iacp con decine di appartamenti vuoti. A promuoverla fu Lotta Continua, con l’appoggio di Potere Operaio. Il Pci e l’Unità si scatenarono contro i “propugnatori dell’illegalità”.

Tra la fine del 1971 e la primavera del 1972 gli assalti delle squadracce fasciste davanti alle scuole, o contro gli scioperi in fabbrica e all’università, divennero un problema serio con cui fare i conti quasi quotidianamente. A questi fatti si aggiunsero anche le continue aggressioni a compagni isolati. L’antifascismo militante divenne una questione da porre all’ordine del giorno nella pratica politica. Questo processo fu accelerato anche dall’uccisione di Mariano Lupo, un operaio di Lotta Continua, caduto durante un’aggressione di cinque fascisti a colpi di coltello, il 25 agosto 1972 a Parma. Il 27 agosto ci fu una grande risposta della piazza antifascista. Un corteo di migliaia di giovani e operai, con molti militanti provenienti da Bologna si diresse verso la sede della federazione del MSI e la distrusse completamente.

Alla fine del ’72, Potere Operaio decise di aprire il “Circolo Franco Serantini”, un circolo politico-culturale dedicato a un giovane anarchico arrestato il 7 maggio a Pisa, durante la contestazione a un comizio del Msi. Franco venne percosso a morte dai poliziotti, fino a spirare due giorni dopo in carcere. Negli anni successivi il Circolo Serantini divenne un punto di riferimento per tutti i collettivi che facevano rifermento all’area dell’autonomia. Nell’ex magazzino farmaceutico, adibito a sede politica, si tennero riunioni e incontri nazionali delle Assemblee Operaie Autonome e dei Comitati Autonomi Operai.

Nel 1973 le pratiche di appropriazione della ricchezza sociale allargarono la loro sfera d’azione in settori fino ad allora non toccati dalle lotte. L’episodio più significativo avvenne il 17 marzo al Palasport, prima del concerto dei Jethro Tull, al grido di “musica gratis” diversi giovani riuscirono a passare gli sbarramenti ed entrare senza pagare. Chi non ce la fece si scontrò con la polizia nelle strade adiacenti al palazzetto dello sport.

Nel 1974 si diffusero in tutta Italia pratiche di autoriduzione. A dare il “la” furono gli operai della Fiat Rivalta che, rifiutandosi di pagare le nuove tariffe degli autobus, spedirono alla società dei trasporti pubblici l’equivalente dei vecchi abbonamenti, e continuarono a usare i mezzi pubblici senza fare il biglietto. Dai pullman si passò all’autoriduzione delle bollette della luce, del gas e del telefono.

Il giornale bolognese “Né servi né padroni”, foglio del Comitato Operaio delle fabbriche di Santa Viola, scrisse: «Alcuni l’hanno chiamata disobbedienza civile, per noi è una lotta che, nell’esprimere la volontà proletaria di imporre i prezzi politici, consolida ed accresce il potere operaio dentro e fuori la fabbrica. L’autoriduzione esprime l’esigenza operaia di reddito garantito, occorre quindi allargarla anche alla luce, al gas, all’acqua, all’affitto».

Nel 1975 iniziarono a vedersi, anche a Bologna, gli effetti dei cambiamenti sociali nella composizione operaia, i “nuovi operai” non avevano più le sembianze dell’operaio-massa dei testi sacri dell’operaismo. In fabbrica il ricambio generazionale continuava a portare giovani emigrati provenienti dal meridione, ma c’erano anche tanti giovani bolognesi ed emiliani scolarizzati, che si erano formati nel clima delle lotte studentesche degli anni precedenti o nelle esperienze aggregative territoriali. I modelli di comportamento che si erano portati in officina avevano poco a che fare con la tradizione storica del movimento operaio e del Pci. Soprattutto alla Ducati Meccanica, la famosa fabbrica di moto, questo fenomeno emerse in maniera più accentuata. Nello stabilimento di Borgo Panigale si formò un Comitato Operaio (Comitato di Lotta Ducati Meccanica) e nelle lotte nei reparti si intravidero i primi comportamenti di quel proletariato giovanile che avrebbe costituito il reticolo sociale che alimentò le lotte degli anni seguenti, fino all’esplosione del 1977.

La forbice tra queste espressioni autonome di lotta operaia e le posizioni del Pci si allargò sempre di più, ma fu nel 1977 che si arrivò a una contrapposizione accesa. Portiamo ad esempio quello che scrisse l’Unità l’11 settembre 1977: «E’ vero che all’interno di alcune fabbriche bolognesi, negli ultimi mesi, sono stati compiuti numerosi atti di deliberato sabotaggio? Chi ne è stato avvertito e chi ha indagato? E’ vero che alcuni lavoratori sono stati visti in più occasioni partecipare ad azioni violente nel corso di manifestazioni accanto alle frange più violente del “movimento”? E’ accaduto che dirigenti di azienda abbiano espresso l’intenzione di dimettersi perché intimoriti dagli insulti e dall’aggressività di minoranze violente? Su questi fatti si è mai ritenuto opportuno indagare?»

Tra l’estate e l’autunno del 1976, in una situazione di grave crisi economica, giovani disoccupati o sottoccupati entrarono in contatto con studenti, precari, operai in cassa integrazione o licenziati, militanti dei movimenti e dell’autonomia. Le iniziative si estesero dalla casa al terreno dei prezzi e rappresentarono un vero e proprio “movimento contro il carovita”.

Nel novembre ’76 nacque il Collettivo Jacquerie che diede il via alla campagna delle autoriduzioni, con lo slogan “Basta con la miseria, vogliamo appropriarci della ricchezza”.

Nello stesso periodo, quando l’Opera Universitaria decise di aumentare i prezzi delle mense e limitare il loro uso ai soli studenti, vennero organizzate autoriduzioni ed autogestioni.

Quelli furono i mesi che anticiparono il “movimento del ’77”, molto pieni di pratiche di riappropriazione, dalle occupazioni delle case sfitte alle “spese proletarie” nei supermercati, dai “decreti per la cultura a prezzo politico” su cinema e teatri all’autoriduzione nei ristoranti di lusso.

Provocatoriamente, alla “austerità”, allora propugnata dal segretario del Pci Berlinguer, venne contrapposto il “tutto e subito”, antitetico ai tempi eterni delle “riforme di struttura”.