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Chiedi chi era Roberto Roversi

Il 10 giugno, nell’ambito di “Archivissima – La notte degli Archivi”, il Centro di Documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani” e VAG 61 organizzano un’importante iniziativa su “Roberto Roversi, agitatore culturale”, presentando il Fondo di riviste raccolte dal poeta che si trova nello spazio autogestito di via Paolo Fabbri.

Fino a qualche settimana fa, sulla facciata di Palazzo dei Notai in Piazza Maggiore, c’erano tre gigantografie. Una era stata riconosciuta da tutti ed era l’immagine di Lucio Dalla, al lato opposto ce n’era un’altra e in diversi avevano percepito che fosse Pierpaolo Pasolini. In mezzo a questi due personaggi “famosi” c’era il ritratto di un signore col pizzo bianco che i più si domandavano chi fosse (e non solo giovani). Quell’uomo dallo sguardo intenso era Roberto Roversi, finalmente, a 10 anni dalla sua morte, anche nei palazzi delle istituzioni e della “cultura ufficiale”, si sono resi conto che a Bologna ha vissuto e operato uno degli intellettuali più importanti e uno degli autori più influenti del Novecento italiano.

Per queste ragioni il Centro di Documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani” che, tra i tanti fondi che custodisce, conserva la prestigiosa raccolta di riviste politiche e letterarie di Roberto Roversi, ha deciso di organizzare, nella giornata di venerdì 10 giugno, un’importante iniziativa dal titolo “Roberto Roversi agitatore culturale”.

Il prossimo 10 giugno, in tutta Italia, più di 400 Archivi daranno vita ad “Archivissima – La Notte degli Archivi. Il centro di documentazione, che ha sede presso lo spazio autogestito Vag 61, ha deciso di partecipare a questo straordinario momento divulgativo, facendo conoscere, soprattutto ai giovani, la figura di Roberto Roversi, intellettuale rigoroso, partigiano e poeta, scrittore e animatore di decine di iniziative editoriali, da molti riconosciuto come uno dei più importanti esponenti della poesia italiana del Novecento.

Nel Cortile e nelle sale di Vag 61, in via Paolo Fabbri 110, a partire dalla 17,30, verrà allestita una mostra con le riviste del “Fondo Roversi” e ci saranno visite guidate agli archivi del Centro di documentazione “F. Lorusso – C. Giuliani”.

Alle 18,30 ci sarà un incontro sull’esperienza dei collettivi redazionali e dell’autoproduzione di riviste politiche e culturali negli anni ‘60-’70-’80 che videro la partecipazione del grande poeta e intellettuale bolognese. Sranno presenti Rudi Ghedini (giornalista e scrittore), Antonio Bagnoli (editore e nipote di Roversi), Federica Taddei (giornalista radiotelevisiva) e altri. Le riviste per Roversi costituivano luoghi fondamentali di discussione e rappresentavano il legame tra impegno politico, spinta al cambiamento e il fiorire di nuovi linguaggi espressivi. Erano spazi per stabilire rapporti costanti tra i soggetti protagonisti della trasformazione della realtà italiana.

Dopo una cena sociale, nella seconda parte della serata, verrà presentata l’anteprima di un documentario che il Centro di documentazione, in collaborazione con la casa di produzione indipendente SMK Factory, intende realizzare per ricordare la figura di Roberto Roversi, il suo grande impegno culturale e civile, l’aver perseguito e raggiunto l’obiettivo della più assoluta indipendenza nella distribuzione delle sue idee, lontano dagli ambiti autoreferenziali delle corporazioni accademiche, ignorando i grandi editori ed alieno alla frequentazione dei poteri e delle autorità. Verranno proiettate le testimonianze video finora raccolte di Fulvio De Nigris, Grazia Verasani, Alessandro Bergonzoni, Bruno Brunini, Matteo Marchesini, Carla Castelli, Rudi Ghedini, Masimo Raffaeli, Mattia Fontanella e Luca Sossella.

Verrà presentato l’audiolibro della bohumil edizioni “Per impervi pensieri”, con la voce di Roberto Roversi, un fatto di per sé straordinario, vista la sua scelta di assoluta riservatezza: una vita nascosta alle luci dello spettacolo, ma sempre presente nel fuoco del mondo.

Verrà proiettato un breve video in cui Elio Germano, all’interno dell’occupazione dell’ex caserma Sani, recitò la poesia “A che punto è la città”, scritta da Roberto Roversi dopo la rivolta giovanile del marzo 1977.

Il tutto sarà contenuto in un reading dove si alterneranno letture di testi di Roversi e musiche di David Sarrnelli e Margherita Valtorta che, nella parte finale della serata, canteranno alcune canzoni scritte da Roberto Roversi per Lucio Dalla.

Il senso dell’iniziativa del 10 giugno sarà principalmente quello di fare conoscere Roberto Roversi ai ragazzi e alle ragazze, seguendo l’approccio con cui il poeta si rivolgeva ai giovani: «Sono convinto che le parole oggi debbano essere tutte intere rivolte ai giovani (e così distratte dall’ufficialità). Ai giovani, ai quali è più che mai urgente presentare (indicare) non ombre frenetiche, e troppo spesso labili, della nostra storia, ma persone vere che hanno, perfino da morte, occhi ancora e voce per aiutarci a guardare e ascoltare».

ROBERTO ROVERSI AGITATORE CULTURALE

Roberto Roversi non ha mai amato che si parlasse troppo di lui, era allergico alle celebrazioni, alla frequentazione dei poteri e delle autorità, se ne stava alla larga dagli ambienti accademici e da quelli contaminati dal presenzialismo. La sua coerenza aveva tenuto lontani gli ammiccamenti provenienti dai palazzi del potere. Non si fidava delle istituzioni perché le considerava «sempre tremende, inesorabili, sostanzialmente indifferenti e solo parolaie».

Del resto, Bologna non aveva mai recepito le sue scosse. Lui non cercava consensi e diceva: «Non si vive senza nemici. Uno dei vuoti che più si avverte in giro è questa generalizzazione del consenso seppure mistificato dentro ai mugugni. Bisogna risvegliare i leoni perché ci azzannino. Perché nella maretta non si vive: ci vuole mare forza dieci per poter navigare nel mare che cerchiamo».

La sua coerenza gli fece pagare dei prezzi, ma il suo stare ai margini non lo faceva essere né schivo né solitario. Anche se non partecipava ad eventi e a dibattiti, era sempre bene informato. Con la mente non se ne stava rintanato, ma dalla libreria Palmaverde guardava senza condizionamenti e con curiosità quello che avveniva in città. Lui non dava giudizi morali, ma trovava le parole necessarie come nessun altro. Come quando un bambino di una coppia di genitori senza casa morì per il freddo in Piazza Maggiore: «La verità è che questa società fa schifo e Bologna ci sta in mezzo».

Roversi era un uomo di parte. Era brusco con gli accomodanti, ma aveva una grande pazienza e attenzione con i giovani, poco importava se fossero poeti o scrittori. Leggeva le loro cose, li incontrava, li esortava di continuo. Gilberto Centi, che era stato suo allievo e grande amico, sosteneva che la sua “intransigenza” fosse sostanzialmente rabbia politica. Che nasceva dalla convinzione di non aver nulla da insegnare e di voler continuamente imparare.

Roberto Roversi fu un intellettuale rigoroso, alieno alla retorica e alla frequentazione dei poteri e delle autorità. Bologna non lo ascoltò quanto era necessario, la sua coerenza lo distolse dai favori dei poteri ufficiali. Lui non soffriva nello stare ai margini, sapeva di dover pagare un prezzo alla coerenza. Negli ultimi decenni della sua vita scelse di ignorare i grandi editori, pianificò perseguì raggiunse la più assoluta indipendenza nella distribuzione delle sue idee. Seguendo questo filo conduttore, riuscì a raggiungere la più totale e radicale indipendenza per la diffusione delle sue idee. Continuò negli anni la sua ricerca culturale e politica con produzioni editoriali autogestite, attraverso ciclostilati, libretti e riviste autoprodotte. E a spedirli, su richiesta, era direttamente lui. Erano fogli quasi clandestini, ma per chi aveva la fortuna di leggerli erano molto preziosi.

Roversi pensava che attraverso la letteratura si potesse fare realmente un discorso che scavasse nel politico, senza perdere di intensità.

UN BREVE RACCONTO DELLA SUA VITA

Roberto Roversi era nato a Bologna nel 1923. Prese parte alla lotta di Liberazione, combattendo nella Resistenza in Piemonte. Oltre ad essere uno dei più grandi poeti italiani è stato saggista, drammaturgo, narratore, scrittore di testi musicali e, soprattutto, un grande promotore culturale antagonista.

Roversi compì i suoi studi a Bologna, prima alla scuole De Amicis, poi al Liceo Galvani. In queste aule, a quei tempi, avvenne l’incontro con Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini, giovani accomunati dalla passione per la poesia. Fuori dalla scuola, dopo un’assidua frequentazione, i tre diedero vita a un lungo sodalizio poetico.

Nel maggio 1955, con Pasolini e Leonetti fondò la rivista “Officina”. Nel retro del primo numero c’era scritto: “fascicolo bimestrale di poesia”. L’attività del periodico si inseriva nel dibattito culturale, di matrice post-bellica, che vedeva contrapposti i due fronti letterari dell’ermetismo e del neorealismo. Quando prese il via la seconda serie, la redazione si ampliò con Franco Fortini, Angelo Romanò e Gianni Scalia. Tra i suoi collaboratori c’erano nomi illustri quali Carlo Emilio Gadda, Paolo Volponi e Italo Calvino. Le sue pubblicazioni proseguirono fino al 1958.

Di quella esperienza Roberto Roversi dichiarò: «“Officina” non è mai stata l’espressione di un gruppo omogeneo ma piuttosto, come dire?, una eccellente e libera occasione di incontro per personalità mai identificatesi in un centro preciso: e quello era forse il momento in cui ognuno di noi voleva sganciarsi ed essere libero».

Per “non rischiare” che il “prodotto editoriale” producesse più un interesse per il contenitore a scapito del contenuto, Roversi, a dimostrazione di come il suo impegno fosse sempre rivolto alla valorizzazione della parola scritta, scelse spesso per le copertine delle sue riviste un “sobrio” cartone da imballaggio non recuperato certo nelle rinomate Cartiere Fabriano.

Conclusa l’esperienza di “Officina”, nel 1961, Roversi fondò una nuova rivista: il quadrimestrale di ricerca letteraria “Rendiconti”, in cui si notò subito un’apertura verso tematiche extraletterarie, alla ricerca di nuove metodologie e nuove forme di analisi socio-politica. Il primo ciclo di pubblicazioni durò 17 anni e fu curato dalle sue edizioni Palmaverde. Dopo una lunga sospensione per motivi economici, la pubblicazione della rivista riprese negli anni novanta con editore Pendragon.

Negli anni settanta Roversi scrisse numerosi testi di canzoni per Lucio Dalla negli album “Il giorno aveva cinque teste”, “Anidride solforosa” e “Automobili” e per gli Stadio scrisse “Chiedimi chi erano i Beatles”. Negli stessi anni diede anche il suo nome come direttore responsabile di Lotta Continua, in solidarietà col giornale, contro una legge fascista sulla stampa che richiedeva un giornalista iscritto all’Ordine per dirigere la testata.

Nelle giornate della rivolta del marzo ’77, dell’uccisione di Francesco Lorusso e della chiusura di Radio Alice, Roberto Roversi si schierò contro il sistema di potere della città. Lo scrisse in una lettera al sindaco Zangheri: «Ci si è defilati affidando la città esclusivamente alle forze dell’ordine per confermare la proposta di una propria disponibilità governativa e per ribadire in pubblico un intransigente legalitarismo che sostenesse la proposta. Anche se le migliaia di uomini armati, a cui si affidava l’opera pratica di ricondurre in città l’ordine dilacerato, avevano messo Bologna in uno stato d’assedio, presentandosi con una rapidità di intervento e di manovra tali da far pensare a preveggenza. E loro avevano innescato il fuoco con un assassinio a freddo.

Bologna, a mio parere, aveva l’obbligo di assumere in proprio il primo morto giovane caduto sulle sue strade e non doveva (né poteva) rassegnarsi a emarginarlo rifiutandosi di dargli il proprio nome e di coprirlo con un pezzo di bandiera…

(…) è arretrante e non corretto, a mio parere, mitizzare Radio Alice come il mostro della favola, mentre è un centro di distribuzione della comunicazione che ha subìto, per le generali, una detestabile sopraffazione…».

Vent’anni dopo, riferendosi a Radio Alice, scrisse su Zero in Condotta: «In quelle stanzette imbucate si è consumato, con un crescendo shakespeariano, uno scontro politico-culturale di prepotente attualità, allora e -se non dispiace- anche oggi. Il piccolo grillo che parla, e poi parla a tutti, e nonostante le parziali aggressioni continua a parlare; fino a quando il potere col suo piede di ferro lo schiaccia nella polvere; ma non potendo impedire che ogni suo passo, ogni suo grido, ogni sua minaccia e l’imprecazione siano fatti ascoltare a tutta la città e restino poi incisi a testimoniare dell’avvenuta violenza. La morte violenta di Radio Alice, la morte violenta di Lorusso studente, sono i due testimoni che stringiamo in mano da consegnare, nella nostra corsa affannosa contro un tempo senza molta speranza, ai giovani uomini di oggi».

Sempre nel 1977 partecipò con Gianni Scalia, Roberto Bergamini, Giulio Forconi, Pietro Bonfiglioli, Vittorio Boarini, Federico Stame, Paolo Pullega, Maurizio Maldini, Gianni D’Elia e altri alla rivista “Il cerchio di gesso”. Il titolo non era ispirato all’omonima opera di Bertolt Brecht ma ai rilievi della polizia scientifica in via Mascarella, il gesso era quello che cerchiava i fori dei proiettili sparati dai carabinieri contro Francesco Lorusso. La rivista aveva in copertina i buchi numerati e segnati di bianco sul muro della via dove l’11 marzo era stato ucciso lo studente di Lotta continua. In questo modo si alludeva chiaramente alla funzione del giornale che si poneva l’obiettivo di “cerchiare” i fatti e di “coagularsi” intorno ad essi.

“Il cerchio di gesso” non era una “rivista fiancheggiatrice” del movimento, anche se accolse di buon grado la collaborazione di ragazzi impegnati nel movimento, che infatti parteciparono, in piena autonomia, al lavoro redazionale. La “carsicità” dei percorsi sotterranei del movimento e le sue latenze non influenzarono la continuità del periodico, che venne definito una “rivista del dissenso”, per questo molto diversa da tutte le riviste sorte attorno al ’68 che venivano concepite come strumenti di propaganda politica e di lotta ideologico/dottrinaria.

Nel 1980, Roversi ideò e curò, insieme a Maurizio Maldini, la “Tartana degli influssi”, una delle prime riviste dedicate ai giovani poeti. Nell’introduzione a quelle pagine aveva scritto: «Cerchiamo di iniziare un lavoro meno approssimativo, anzi rigoroso, sulla poesia scritta e parlata che i giovani, in questi anni, continuano a distribuire».

Roversi gestì per quasi sessant’anni, dal 1948 al 2006, con la moglie Elena, la libreria antiquaria Palamaverde. In quei locali, che ebbero l’ultima sede in via de’ Poeti (mai luogo fu più adatto allo scopo), ci fu sempre un continuo via vai di tanti autori che, da ogni parte d’Italia, arrivano a Bologna per incontrarlo. In quel clima, all’inizio degli anni ’80, si costituì la cooperativa culturale “Dispacci”, nata per diffondere la poesia degli esordienti, da lui ideata e coordinata, alla quale parteciparono giovani autori, tra i quali Bruno Brunini, Maurizio Maldini, Gabriele Milli, Mino Petazzini, Nicola Muschitiello, Salvatore Jemma, Carla Castelli e Marisa Zoni. “Dispacci” operò dal 1982 al 1987 e si occupò di diverse attività come laboratori di scrittura nelle scuole e nel carcere minorile di Bologna, cicli di incontri, riviste, fogli volanti di poesia diffusi gratuitamente in varie occasioni. Furono le tante forme di una comunicazione autogestita, diversa da quella proposta dal sistema culturale dominante.

Roversi era una persona libera e, pur preferendo una poesia che si confrontasse con la realtà sociale e con la storia, non ha mai imposto ai giovani poeti che si avvicinarono a lui alcun canone espressivo. Gli incontri alla libreria Palmaverde, per chi li frequentò, furono momenti formativi molto importanti in un periodo di cambiamento collettivo molto complesso.

Anche Zero in condotta, nel periodo in cui era quindicinale cartaceo, ebbe la fortuna di averlo come collaboratore, dal 1995 al 2001.

Forse è difficile da immaginare, ma il “poeta di via de’ Poeti” amava i piloti di Formula 1, «per il coraggio non scriteriato, l’audacia non immotivata e un’abilità di conduzione legata alla tecnica e al rispetto per il motore», ma adorava anche il ciclismo e la scherma: il fioretto in particolare.

IL FONDO ROVERSI NEL CENTRO DI DOCUMENTAZIONE DEI MOVIMENTI “FRANCESCO LORUSSO – CARLO GIULIANI

Per Vag 61 e per il Centro di documentazione dei movimenti “F. Lorusso – C. Giuliani” è stato un vero piacere ridare spazio e visibilità pubblica al Fondo delle riviste di Roberto Roversi che era stato donato a Bartleby. Il fondo venne trasferito in via Paolo Fabbri 110 il 14 luglio 2016, per una libera scelta degli attivisti e delle attiviste dell’ex collettivo Bartleby, dopo lo sgombero dello spazio autogestito di via San Petronio vecchio.

In questo modo si poté seguire la volontà di Roversi che non voleva che il fondo rimanesse confinato in un magazzino o in una specie di museo, la sua volontà era che quel materiale fosse rimesso in circolazione e reso fruibile a tutti. La collocazione presso Vag 61 ha consentito di mantenere viva la memoria e di stabilire una continuità con l’impegno civile di Roberto Roversi, perché le riviste sono state una parte importante del suo lavoro.

Si tratta di pubblicazioni preziose, qualcosa di molto importante per la città. Solo per citare alcuni dei titoli, tra le centinaia di periodici: La collezione di AUT AUT dal 1951 al 1980; “Abiti Lavoro”, quaderni di letteratura operaia; “Azione comunista”, giornale della sinistra comunista (Anni 1957/1966); “L’approdo letterario”, 1959; “L’assalto al cielo” (fumetti, cultura, politica); “Angelus novus”, trimestrale di estetica e critica (1968/1974); “Autobus”, trimestrale di letteratura e teatro (1978/1979); “Bianco e Nero”, rassegna mensile di studi cinematografici e televisivi; “Belfagor”, rivista di varia umanità (195/2001): “Cervo volante”, rivista internazionale di arte e poesia; “La Comune”, trimestrale di ipotesi ed esperimenti di politica e cultura (1969/1970); “Classe”, quaderni sulla condizione e la lotta operaia (1970/1982); “Comunità”, rivista di informazione culturale fondata da Adriano Olivetti (1956/1972); “Il Cerchio di Gesso”, rivista di letteratura e politica (1977/1979, fondata a Bologna); “Controcorrente”, verifica sulle ipotesi di trasformazione della società (!969/1971); “Controstampa”, giornale degli anarchici romagnoli (1973); “Classe Operaia, rivista politica (1964/1965); “Ideologie”, quaderni di storia contemporanea; “Incognita”, rivista di poesia; “Inverso”, rivista di poesia; “KR 991”, rivista di poesia e letteratura; “Le operaie della casa”, rivista politica femminista (1975); e tante altre ancora…

Per Roversi le riviste si proponevano come luogo fondamentale di discussione, di incontro e scontro sui temi e sui fatti al centro della storia e della vita delle persone.

Dopo la memorabile esperienza di “Officina”, il rapporto tra Roversi e le riviste ebbe una fase particolare tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’70, quando più in generale nella società italiana si stabilì un legame diretto tra l’impegno politico, la spinta al cambiamento e una fioritura nel campo artistico. I nuovi linguaggi espressivi che ne derivarono, determinarono una rottura con la tradizione e “il perbenismo ipocrita”. La crisi della politica di quegli anni, il disagio sociale diffuso, la necessità di elaborare nuovi strumenti di comprensione del reale e di intervento, provocarono un’ondata di creatività, di innovazione, che inaugurò un periodo fecondo di ricerca di nuove possibilità di espressione.

Le numerose riviste, i fogli, le fanzine, le pubblicazioni di quel periodo, presenti nel fondo di Roversi, per buona parte introvabili nelle biblioteche, raccontano bene quel passaggio epocale, interpretando le varie esperienze di quella che fu una rivolta esistenziale oltre che politica.

E’ difficile dire quante riviste Roversi abbia pensato, costruito, promosso, scritto, riletto, corretto, ciclostilato, impaginato, stampato, distribuito, raccolto… E a quante altre abbia collaborato. Ogni volta, con la massima cura e precisione. Sceglieva la carta, la copertina, il formato, i caratteri tipografici, e faceva capire che ogni scelta estetica doveva essere coerente con il progetto “politico”.

Una rivista, secondo Roversi, doveva rispondere a una necessità collettiva. Non al bisogno di esprimersi: per quello ci sono tante altre forme (musica, poesia, romanzi, fotografia, fumetti). Fare una rivista significava, innanzitutto, condividere un progetto, darsi un’organizzazione, avere una visione sulla prospettiva, sul come farla arrivare a un pubblico, e poi verificarne di volta in volta le reazioni, precisando gli obiettivi e il linguaggio.

Il mio amico Roberto Roversi, di Antonio Motta

Ho conosciuto Roberto Roversi nel 1974. Leggevo i suoi articoli civili sul «Manifesto», ma la sua fama era legata alla libreria antiquaria «Palmaverde», che era un porto di mare dove arrivavano i giovani poeti che aspiravano alla pubblicazione dei loro versi. Non era facile trovare in Italia un lettore così attento, aperto, democratico, che leggeva le raccolte di esordienti senza dover passare per le segreterie delle case editrici e aspettare tempi lunghissimi prima di avere una risposta.

Avevo appena pubblicato Mitolatrie (insieme a Michele Coco e a Cosma Siani), che per i benpensanti del mio paese era considerato un libro di comunisti. Ne inviai copia a Roversi, che mi rispose prontamente. Non che quel suo biglietto fosse un evento capitale, ma in un certo senso si rivelò ricco di frutti. Roversi non era autore da salotti letterari, ma sudai sette camicie prima di conoscerlo. La Palmaverde – che stava allora in via de’ Poeti – era un luogo speciale, una sorta di cattedrale, con pareti altissime, scaffalature severe, zeppe di libri. Quel giorno che lo incontrai, rinunciò al giro consueto delle librerie. Avevo tempo di stare con lui fino a mezzogiorno, poi doveva correre al tribunale per una perizia di una biblioteca privata. Quando bussai al portone, mi aprì una figurina delicata, sorridente (era sua moglie Elena, che veniva dagli Abruzzi). Egli, come un artigiano, legava le Descrizioni in atto. Cuciva i fogli con tre fermagli metallici e impacchettava. Non parlammo quella mattina di libri, di poeti, né di Mitolatrie, ma di Pasquale Soccio, di cui era stato ospite nella sua casa di campagna e che per fargli festa aveva stappato una bottiglia di vino nero impeccabile del 1898. Parlammo del Gargano, dei pescatori di Varano, che allineati sulle chiuse afferravano i cefali con le mani. Non so dire cosa mi portavo dentro di me: il poeta, il libraio, l’editore, l’antiquario? Ma da quel giorno i miei libri, i miei poeti, le mie letture non furono gli stessi.

L’ho frequentato per molti anni. Nel torrido giugno del ’77 fui anche suo ospite. Ricavo la data dall’album che mi donò in quell’occasione. La cosa straordinaria di quelle giornate bolognesi è che dormii in una stanza stracolma di libri, come tutta la sua casa. Ai piedi del letto, da un’anta della scaffalatura, fuoriusciva una cartella in plastica chiusa con due nastrini neri, attaccata al dorso una etichetta di quelle che si appiccicavano una volta sul dorso dei libri delle biblioteche, con la scritta “Leonardo Sciascia”. Erano le lettere che l’autore di Nero su nero scrisse a Roversi negli anni 1953-1972. Sfogliai più volte quelle carte, non potendo mai immaginare che trentaquattro anni dopo sarebbero state mie, per un gioco del destino.

Ogni estate, di ritorno da una città del Nord, dopo gli esami di maturità, mi fermavo a Bologna e vi passavo alcune ore con lui. La Palmaverde era una libreria antiquaria invincibile, solo gli artigli edaci del tempo ne hanno decretato la fine. Per oltre mezzo secolo è stata un laboratorio di esperienze letterarie. Qui nacquero la mitica «Officina» e «Rendiconti». Le canzoni per Dalla: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Il futuro dell’automobile. Vi arrivavano Calvino, Vittorini, Tonino Guerra, Volponi e, da Racalmuto, Leonardo Sciascia.

Mi ricevava nel suo studiolo, stipato di libri e cartelle, dove un ottocentesco abat-jour sempre acceso illuminava la piccola stanza, in cui a malapena c’era posto per un solo ospite. Roversi era un antiquario coltissimo, ma soprattutto un grande poeta civile. Era attento alle parole dell’interlocutore e non permetteva mai che la conversazione scadesse su temi frivoli. Non mi lasciava andare prima di informarsi sulla vita materiale della mia Capitanata, sulla raccolta del pomodoro, sui braccianti di Di Vittorio.

Passarono molti anni da quando ebbi tra le mani le lettere di Sciascia, ma la mia passione per lo scrittore siciliano era cresciuta. Un giorno, dopo la morte dello scrittore, ne scrissi a Roversi. Mi rispose sollecito: «Caro Antonio […] per il tuo archivio Sciascia, devo ancora andare, e sicuramente andrò in via Montegrappa, dove, in un sottoscala, ho ammucchiato casse, cassine e cassette con le varie carte mie private». Ma delle lettere, dopo un attento riscontro, non c’era traccia.

Vent’anni dopo seppi da lui che tutte le sue carte erano state donate alla biblioteca comunale di Pieve di Cento. Col suo consenso mi rivolsi al funzionario del Comune che le aveva in custodia per avere in copia le lettere. C’erano difficoltà burocratiche: aprire i pacchi sigillati, inventariarle, approvare un’apposita delibera di giunta. Nel mezzo di questa febbricitante trattativa, un fervente comunista del mio paese che sapeva del mio interesse per Sciascia, mi segnalò di aver letto su «L’Unità» un articolo sull’epistolario Sciascia/Roversi. Com’era possibile? Non dovevano essere le lettere nella biblioteca di Pieve di Cento? Chi le aveva date al giornale? Chiamai Roversi al telefono deciso a venire a capo di questo mistero. Per un sortilegio del destino le lettere di Sciascia, insieme a quelle di Calvino e Pasolini, non erano finite negli scatoloni del comune. Dimenticate, sfuggite? Qualche mese dopo, lo scrittore bolognese mi scriveva: «Caro Antonio, ti dono in originale le lettere, il carteggio di Sciascia. È tuo. Non è ordinato, non ho avuto tempo». Non lessi subito quelle carte, non prima di essermi procurato le lettere di Roversi a Sciascia, che la Fondazione di Racalmuto mi inviò in copia. Sono lettere di due utopisti, di due intellettuali solitari, liberi, che sognano un’impossibile Italia civile, scritte per la gran parte quando l’Italia (e la Sicilia) era agricola e contadina. Parlano di libri, di poeti, di scrittori, ma nascondono un’ansia e una perseveranza che solo i “poveri” conoscono.

Nell’ultima lettera a Roversi del 16 marzo 1972 – Sciascia è appena uscito dagli strali violenti scagliati dai maggiorenti del Partito comunista al Contesto – scrive:

«Caro Roberto, anche se da qualche anno non ci vediamo e non ci scriviamo, la mia simpatia e amicizia per te è sempre viva […] Io mi sono un po’ isolato, in questi ultimi tempi. Sono scontento di tutto, e anche di me stesso. Ma cerco ancora di dire la verità, quella che è la mia verità. Ignazio [Buttitta] mi dice che il mio ultimo libretto non ti è dispiaciuto, e che ne hai scritto su “Giovane Critica”. Cercherò di trovare il numero (qui tutto è difficile)».

Sciascia e Roversi non si incontreranno più, ma a distanza si leggono, combattono le stesse battaglia civili. Sciascia scriverà i pamphlet del disinganno (Todo modo, Candido, L’affaire Moro, Nero su nero), Roversi i versi dell’indignazione (Le descrizioni in atto, L’Italia sepolta sotto la neve).

Negli anni Novanta dirigevo i «Fogli da Borgo Celano», una collana di testi adornati da un’incisione di un Maestro contemporaneo, stampati su carta pregiata in pochi esemplari. Decisi di dedicare il settimo numero a Roversi, che era un bibliofilo. Mi fece avere Il Libro Paradiso. Poesie degli anni ’70 e ‘80. Il titolo alludeva al Paradiso che su questa terra non c’è e che l’autore di Dopo Campoformio ostinatamento aveva cercato. Fogli volanti scritti di getto, nella battaglia , che era il suo vivere quotidiano. Duri ma dolcissimi. Curò personalmente la stampa, dalla correzione delle bozze alla scelta dei caratteri, quelli severi che a lui piacevano. Per il proto scrisse questo biglietto: «Non si potrebbe cercare un carattere meno floreale per il testo del frontespizio?». Lo dedicò alla nipotina «Caterina, anno primo, luglio ’93». Piero Guccione incise Un ibisco per Roversi. Ci vollero sette lastrine (due su rame e cinque prove litografiche) per ottenere tutte le sfumature sensuali dell’ibisco.

Nel “Centro Documentazione Leonardo Sciascia/Archivio del Novecento” di San Marco in Lamis sul Gargano si conservano tutti i suoi libri, le lettere, il racconto Gargano ’61 (frutto del suo viaggio insieme ai registi Carlo Di Carlo e Aldo D’Angelo), l’album Dieci canzoni per Dalla, gli articoli scritti per «Il Manifesto», «Il Cerchio di Gesso», «La Città Futura», «Bologna Incontri», «La Tartana degli Influssi», «Lo Spartivento», «Numerozero» e la raccolta completa della rivista «Rendiconti».

Intervento di Federica Taddei

Molto più che un agitatore culturale, Roversi dipanava parole poetiche distribuite a piene mani auspicando una contaminazione attraverso i versi che servivano non solo “da cerbottana”, come aveva detto un giorno Dalla, ma che erano un monito, anche una profezia di uno sguardo lungo. L’ho conosciuto da vicino nei primi anni 80, per una intervista sulla sua scelta di pubblicare al di fuori del mercato editoriale ufficiale, una volontà di libertà che confinava con la polemica aperta nei confronti delle strategie di vendita. E di scelta. Mi sarebbe piaciuto scoprire la cosiddetta “poesia marginale” quella lontana dai riflettori e dai titoli dei quotidiani. Erano gli anni dell’euforia , del capitalismo vincente in tutte le sue forme che lo rendevano inquieto, quasi rabbioso nei confronti di quella società , come confidava al poeta Gianni D’Elia, diventata inesorabilmente “il regno del leone nella foresta”. Così mi parlò di pagine poetiche espressione di realtà operaie, come il foglio autogestito “Abiti -lavoro”, del poeta -falegname Eugenio Vitali e del suo “Concerto atomico” (Vitali scrisse poi altri libri persino tradotti all’estero), del foglio “L’Immaginazione”, degli insegnanti pugliesi Anna Grazia D’Oria e Piero Manni, che poi nel tempo diventò una rivista letteraria su cui pubblicano poeti e intellettuali famosi, e anche una casa editrice apprezzata nel mondo letterario italiano. E ripassavo a mente tutti i suoi “fogli” da “Rendiconti” diventato sempre più corposo, a “il gioco di ascolto” del 1993 fino al Foglio degli eremiti del 2011, sempre con la cultura come unica arma, in grado di scuotere le coscienze, l’unica che sentiva di avere, come confidava a Ferdinando Camon nel 1973. Diceva di sapere che il lavoro letterario non serve a fare la rivoluzione, ma di sapere altrettanto bene che per questa rivoluzione e questo dissenso “ non ho altro strumento per le mani , e non sono bravo artificiere per bombe o tattico per battaglie”. Così cominciavo a capire perché quando lo andavo a trovare alla Palmaverde, credendo di ascoltare poesia, lui non smetteva mai di parlare di società finanziarie che lentamente e inesorabilmente si stavano appropriando del nostro Paese, e quindi della nostra cultura, che vedeva appiattirsi su modelli convenzionali. Persone ridotte a soddisfare bisogni inesistenti, indotti, mai soddisfatti quindi, destinati a provocare uno stato di perenne servitù in chi non sa separarsene. Cominciavo a capire perché era amato e temuto, amato e non accompagnato nel suo percorso. Scrivere è un lavoro politico diceva, perché per esprimersi la persona deve prendere consapevolezza di sé, di quel che vuole, ma senza chiedere in cambio, perché, diceva “la poesia deve essere e restare libera, deve dare e non prendere, dare e non chiedere”. Nel 2012, mentre Roversi era ancora vivo, si è svolto a Roma un convegno “Roberto Roversi: poesia e passione civile”, quattro poeti , due intellettuali italiani, e l’editore di Roversi, Bagnoli, hanno parlato della importanza che la sua presenza ha significato nel nostro secolo. Ma lui quasi non voleva, si sottraeva, gli sembrava “troppo” un convegno su di lui, tanta era l’abitudine al lavoro silenzioso, che sentiva come necessario, e quindi senza premio. In quell’occasione, tra i poeti che hanno parlato della sua poesia, vorrei ricordare Maria Grazia Frabotta, scomparsa neanche due mesi fa, a cui intendo così rendere omaggio. Di Roversi aveva detto: “aveva impugnato la penna per deprecare il capitalismo vincente e si trova in largo anticipo a piangerne le miserie autodistruttive oggi sotto gli occhi di tutti; ma nemmeno queste considerazioni svelano il conturbante segreto del suo poetare”.  E infatti oggi qui rievochiamo la sua figura ma anche e soprattutto forse, quel “conturbante segreto “, il dono dell’immagine, quella “neve” che ricopre l’Italia, sotto la quale però il poeta Roversi, credo si augurava covassero nuove radici. Perché è stato un “sovversivo mite”, come ha scritto Serra, l’uomo che coltivava le parole della vita, che “possedeva la verità della poesia” (Carlo Bordini sull’Unità 2012), ma rimaneva legato alla terra, celebrata anche con una parola inusuale, oggi pronunciata con difficoltà: Patria. “Una parola che mi cammina sul cuore” scriveva. “Tutta cielo e mare, è la voce dei bambini che chiaman la madre, è il rumore del treno sulla pianura, è l’ Italia ferita ed altera”. E quella terra, questa terra in particolare, l’Emilia , è la terra in cui riposano i suoi cari, la terra in cui adesso riposa, e che , ancora vivente, ha voluto attraversare , anche se sotto la neve, per amore di chi vi era sepolto.

Per chi non fosse riuscito a partecipare, o per chi volesse rivederla, trovate qui il video della serata su “Roberto Roversi, agitatore culturale”, svoltasi il 10 giugno 2022 nell’ambito della rassegna Archivissima 2022 – la notte degli archivi.

Durante la serata è stata esposta una mostra su Roberto Roversi, che potete vedere qui.