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Scheda: il caso 7 aprile

Il 7 Aprile 1979 reparti della Digos, dei Carabinieri e della Polizia, su mandato dei magistrati padovani Calogero e Fais, effettuarono decine di arresti, in diverse città italiane, coinvolgendo gli esponenti più noti dell’Area dell’Autonomia Operaia ed ex militanti di Potere Operaio. Stampa e tv diedero notizia della maxi-retata affermando che era stato portato in galera il presunto vertice delle Brigate Rosse.

Furono arrestati: Antonio Negri (a Milano); Oreste Scalzone, Emilio Vesce, Lauso Zagato (a Roma); Ivo Galimberti, Luciano Ferrari Bravo, Carmela Di Rocco, Giuseppe Nicotri, Paolo Benvegnù, Alisa Del Re, Sandro Serafini, Massimo Tramonti (a Padova); Mario Dalmaviva (a Torino); Guido Bianchini (a Ferrara); Marzio Sturaro (a Rovigo). Riuscirono a sfuggire alla retata: Franco Piperno, Pietro Despali, Roberto Ferrari, Giambattista Marongiu, Gianfranco Pancino, Nanni Balestrini e Gianni Boeto.

I capi di imputazione formulati dal PM Calogero.

Dodici degli imputati furono incriminati “per aver… organizzato e diretto un’associazione denominata ‘Brigate Rosse’… al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e mutare violentemente la Costituzione e le forme di governo sia mediante propaganda di azioni armate contro persone e cose, sia mediante la predisposizione e la messa in opera di rapimenti e sequestri di persona, omicidi e ferimenti e danneggiamenti, di attentati contro istituzioni pubbliche e private”. Tutti gli imputati, per avere organizzato e diretto “Potere Operaio” e “Autonomia Operaia” al fine “di sovvertire violentemente gli ordinamenti costituiti dello Stato sia mediante la propaganda e l’incitamento alla pratica cosiddetta dell’illegalità di massa di varie forme di violenza e di lotta armata, espropri e perquisizioni proletarie, incendi e danneggiamenti ai beni pubblici e privati, rapimenti e sequestri di persona, pestaggi e ferimenti, attentati a carceri, caserme, sedi di partito, associazioni e cosiddetti ‘covi di lavoro nero’ sia mediante l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi, ordigni incendiari e, infine, mediante il ricorso ad atti di illegalità, di violenza e di attacco armato contro taluni degli obbiettivi sopra precisati”.

I sufficienti indizi di colpevolezza

A sostegno di queste imputazioni, sempre secondo il PM Calogero esistevano: “sufficienti indizi di colpevolezza, desumibili: 1) dalla copiosa documentazione sequestrata o acquisita soprattutto nelle parti in cui esalta e si programma la lotta armata, si annunciano e si rivendicano atti di violenza o attentati terroristicii, si predispongono mezzi e organizzazioni di tipo paramilitare, si promuove e si incita alla insurrezione armata contro lo Stato; 2) dalle riviste Rosso e Controinformazione, e di altri numerosi giornali e opuscoli, volantini e scritti di evidente contenuto sovversivo; 3) dalle testimonianze assunte e dalle risultanze delle indagini di polizia giudiziaria comprovanti sia la natura, le modalità e i mezzi dell’attività criminosa svolta da ciascun imputato, sia rapporti associativi intercorrenti tra l’uno e l’altro e il comune disegno antigiuridico, sia infine la loro consumata e attuale partecipazione in qualità di dirigenti e organizzatori ad associazioni delittuose meglio configurate nei capi di imputazione”.

La fake news delle fake news

Tra i capi d’imputazione più rilevanti ed eclatanti nei confronti di Toni Negri ci fu quello di essere stato telefonista delle BR durante il sequestro Moro. Altri arresti si ebbero nei restanti mesi del 1979, da giugno a dicembre, e ancora nel 1980. In tutto, agli imputati furono comminati quasi 300 anni di carcerazione preventiva. Il processo, per via dell’interferenza con le inchieste sulle BR, fu in parte trasferito a Roma. Le accuse di Calogero, pur accolte nel processo romano di primo grado del 1984, caddero quasi del tutto nell’appello del 1987: ne rimasero, argomentati sulla base di fattispecie assai dubbie.

Nel troncone padovano il processo di primo grado portò direttamente all’assoluzione di tutti gli imputati il 30 gennaio del 1986 (quasi sette anni dopo gli arresti): tra gli assolti vi furono anche i coimputati di Pietro Greco (detto Pedro), che nel frattempo il 9 marzo 1985, da latitante, era stato ucciso a Trieste da agenti della Digos e del Sisde.

Il crollo del cosiddetto “teorema Calogero” fu ulteriormente e definitivamente sancito dalla sentenza d’appello presso la Corte di Venezia nel marzo 1988.

Crollò l’impianto stesso dell’inchiesta; venne dimostrato come Negri, Piperno, Scalzone e gli altri del 7 aprile, con le Brigate Rosse, non avessero nulla a che spartire, e nonostante le accuse si rilevassero infondate molti imputati restarono in carcere fino al 1985. Il teorema Calogero è rimasta la più impressionante montatura mediatico-giudiziaria dell’Italia repubblicana.

La gogna mediatica

Tra le caratteristiche del 7 aprile vi fu – cosa relativamente nuova per l’epoca – la gogna mediatica: i giornali non si risparmiarono titoli cubitali del tipo “Scoperti ed arrestati gli assassini di Moro”, e sopirono d’un balzo l’eco del delitto Pecorelli di qualche settimana prima; pochissimi furono coloro che rimasero lucidi, tra loro alcuni giornalisti del Manifesto e, nella stampa ufficiale, il solo Giorgio Bocca.

Di fatto l’arresto dei compagni il 7 aprile 1979 fu il primo atto di una persecuzione giudiziaria e di un linciaggio mediatico che non aveva precedenti nella storia d’Italia dal 1945 ad allora e non ha avuto eguali negli anni successivi.

A partire da quell’inchiesta e dal suo teorema accusatorio, il sistema della giustizia nel nostro paese  è diventato un laboratorio in cui l’eccezione si è fatta regola permanente. La giurisdizione speciale è diventata un corposo arsenale pieno di eccezioni procedurali, criteri premiali e differenziali. Dove le pene sono state raddoppiate ed è stato esteso a a man bassa l’uso del concorso morale. Dove la custodia preventiva è stata moltiplicata e l’onere della prova è stato capovolto, elevando la parola  dei pentiti a fondamento delle accuse.

In ricordo di Egidio Monferdin

Nell’archivio del Centro di documentazione il “Fondo 7 aprile” è una delle parti più importanti. Si tratta di più di cento faldoni contenenti copie del materiale giudiziario (interrogatori, indagini, atti processuali, documenti sequestrati), sottoposti in questi anni a una meticolosa catalogazione, per renderli disponibili alla catalogazione.

A quarant’anni del 7 aprile 1979 il Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani” ha deciso di dedicare la sala in cui sono custoditi i materiali del fondo a Egidio Monferdin, uno dei compagni incarcerati per quella maxi-inchiesta, scomparso qualche anno fa, molto conosciuto a Bologna, per la sua militanza attiva nelle fila del movimento, nelle lotte dei migranti e nelle attività degli spazi sociali, in primo luogo all’XM24.