I giorni della strage alla Stazione raccontati da Radio Carolina, un’emittente del movimento bolognese, che fu tra le prime a dare la notizia e, attraverso una diretta di 48 ore, diede voce alla città che si stava mobilitando con tutte le sue forze.
LA TELEFONATA A QUELLA RADIO DI MOVIMENTO
Bologna, 2 agosto 1980, sono da poco passate le dieci e mezza, a Radio Carolina arriva una telefonata di un collaboratore: “Stavo passando dal ponte di via Matteotti, in stazione c’è stata un’esplosione fortissima… una parte del palazzo è crollata, molte carrozze ferroviarie sono andate distrutte, le tettoie dei binari sono squarciate… si sentono grida di persone… sembra sia passato un bombardamento… rimango in zona, cerco di capire che cazzo sia successo… vi tengo informati”.
Con questa chiamata, dai microfoni dell’emittente di movimento bolognese, partirà, per più di 48 ore, una diretta ininterrotta fatta di scambi telefonici, commenti, sfoghi, prese di posizioni politiche, reportage e aggiornamenti da Piazzale Medaglie d’oro, diffusione di notizie utili e segnalazioni necessarie sia per chi chiede ragguagli sui numeri dei morti e dei feriti, sia per chi vuole partecipare agli aiuti e alle operazioni di soccorso..
La radio è aperta da meno di due mesi e ha preso il posto di Alice che ha esaurito la sua esperienza. In pochi la conoscono e la frequentano. La sua sede sta in un posto sperduto, in via Michelino, alle spalle della Fiera. L’impronta di fabbrica delle frequenze è garantita pure dalla location: al secondo piano di una vecchia fonderia che fa dei fumi e della nocività la sua caratteristica principale.
Dai 100,4 Mhz gli inviati della radio tentano di recuperare notizie, aggiornate in tempo reale, sulle dinamiche del botto.
La prima ipotesi sulle causa dell’esplosione, quella della caldaia rotta, non regge e dopo qualche ora viene smentita. Anche dall’AMGA (l’azienda municipale del gas e dell’acqua) arriva la conferma sull’impossibilità che sia scoppiata una caldaia. Tutte quelle della stazione sono a posto e non ce n’è nessuna sotto le sale d’attesa di prima e seconda classe (dove la deflagrazione ha fatto più danni). In più, essendo in agosto, il riscaldamento è spento. Anche una possibile fuga di gas viene scartata per mancanza di riscontri reali.
Solo il già allora immarcescibile Bruno Vespa, arrivato sul posto con le troupe del TG1, continua ad affermare per diverso tempo che il boato non può essere stato provocato da una bomba, coprendo così mediaticamente le fonti ufficiali che tendono a indebolire l’eventualità di un attentato propendendo (chissà perché) per la tesi dell’ incidente.
Per questo e per non avere mandato in onda alcun collegamento particolare o nessun servizio aggiunto, nei giorni successivi, contro la TV di Stato arrivano diverse accuse e critiche, tutte indubbiamente motivate.
Anche se gli inquirenti non si pronunciano ancora, dai microfoni di Radio Carolina, invece, si comincia a parlare ripetutamente di una bomba. A supportare questa ipotesi vengono mandate in onda interviste a persone presenti in stazione: molte di queste raccontano di aver visto una fiammata di 3-4 metri di altezza e di aver sentito un boato di altissima intensità.
Poi arriva la notizia che l’epicentro dello scoppio è stato individuato nella sala d’aspetto della seconda classe, dove sarebbero stati abbandonati due zaini con una consistente quantità di esplosivo.
L’idea dell’atto terroristico prende sempre più corpo quando all’Agenzia Ansa di Torino arriva una telefonata che rivendica l’attentato nell’anniversario della strage dell’Italicus, della quale è stato accusato il fascista Mario Tuti e la cui sentenza di rinvio a giudizio è stata depositata proprio la mattina dell’esplosione.
In altre interviste fatte sentire dalla radio viene espresso con molta crudezza tutto il terrore che l’esplosione ha prodotto. Nelle parole dei testimoni viene descritto lo scenario di guerra che si è creato, ma, al tempo stesso, sembra che nessuno voglia lasciare spazio alla disperazione. E’ in questi momenti che la solidarietà diventa protagonista: tutti cercano di aiutarsi con il poco che hanno a disposizione.
SCATTA UNA SOLIDARIETA’ TOTALE
I soccorsi cominciano a funzionare immediatamente, veloci e razionali, meglio di così non sarebbe stato fattibile. Si formano vere e proprie catene umane per il passa-mano dei calcinacci. E’ uno scavare ininterrotto, un continuo spostamento di mattoni, si tenta di liberare prima possibile la zona della deflagrazione. Tutti sono lì per trovare persone vive, anche se ferite, sotto le macerie. Le squadre di soccorso sono composte da volontari, vigili del fuoco, soldati di leva; spesso si trovarono a operare fianco a fianco persone che, in precedenza, si erano fronteggiate con asprezza sul piano politico. La risposta è totale, tutti quelli che possono essere utili, e anche qualcuno in più, accorrono sul posto della tragedia.
Ancora prima dell’arrivo di ambulanze e di vigili del fuoco i sopravvissuti vengono aiutati da ferrovieri, facchini e tassisti, e dai primi arrivati. Si “requisiscono” automobili private per il trasporto dei feriti e comincia una lunga spola tra la stazione e gli ospedali. Anche nei nosocomi tutto quello che è umanamente effettuabile viene realizzato. Senza bisogno di precettazione, medici e infermieri ritornano dalle ferie e dai permessi e si precipitano in corsia
Pure per le donazioni di sangue parte una vera e propria gara, molto partecipata ma senza emulazione. A un certo punto, anche dalla radio, si invita a fermare il flusso. Sta arrivando troppa gente all’AVIS e nelle strutture sanitarie, quasi da mettere a repentaglio il regolare funzionamento dei prelievi.
La città tutta dà prova di prontezza e di grande efficienza. Si mobilitano i quartieri, tanti cittadini si mettono al servizio della comunità. Da tutte le parti c’è la determinazione e il desiderio di salvare e aiutare le vittime dell’attentato. L’amministrazione comunale istituisce nel cortile di Palazzo d’Accursio un centralino informativo e un centro di coordinamento dove è possibile, per i parenti delle vittime e dei feriti, essere accolti, assistiti e ospitati. Gli alberghi aprono le loro porte ai viaggiatori che non possono rientrare a casa.
In quei giorni a Bologna si assiste a un soccorso di massa, pronto e immediato, forte di una spinta solidale che merita di non essere dimenticata: da uno scenario di morte e devastazione prende corpo una capacità auto-organizzativa della gente comune che ha dello straordinario, un moto spontaneo che fa partire la ricostruzione negli istanti successivi alla devastazione. E difficile che una comunità possa generare qualcosa di più vitale della dimostrazione di coraggio e della forza di volontà nell’aiutare le persone che si sono visti nei giorni della strage del 2 agosto.
Tra gli organi di informazione, il quotidiano “Lotta continua” è quello che meglio è riuscito a descrivere la situazione: “La città si è prodigata nei confronti di chi ha subito gli effetti più devastanti e dolorosi della bomba. La città ufficiale, quella di chi lavora nelle cooperative e nelle fabbriche, che è bolognese e si dice comunista. La città altra, con i capelli lunghi, precaria, spesso immigrata. Gli operai robusti, tozzi, in canottiera che muovono con perizia le ruspe, i picconi, le mazze; i ragazzi magri, con i jeans bianchi di polvere che guardano storto i carabinieri che non fanno nulla mentre loro si muovo al ritmo sostenuto dei vigili del fuoco”.
L’AUTOBUS “37”
Il primo lavoro di sgombero delle macerie viene portato a termine nella notte del 2 agosto. Tutti i feriti sono stati soccorsi e trasferiti negli ospedali.
A parte il valore del lavoro di aiuto e di assistenza, la scena a cui ci si trova davanti è straziante. Molti corpi sono dilaniati e devastati dalle fiamme, assolutamente irriconoscibili.
I soccorritori, tutti con la mascherina, collocano i cadaveri coperti con dei teli bianchi sulle barelle per poi caricarli su un autobus, il numero 37, messo a disposizione dall’ATC.
Per poter permettere l’accesso più facile delle lettighe vengono rimossi sul posto i sostegni verticali che si trovano nei pressi delle portiere del veicolo. Ai finestrini dell’autobus vengono fissati dei lenzuoli bianchi per non far vedere all’esterno l’attività di pronto soccorso mobile che nelle prime fasi di intervento viene approntata. Col passare del tempo il gravame della tragedia si fa sempre più drammatico e, dalle prime cure ai feriti, si passa al trasporto dalla stazione all’obitorio dei corpi dilaniati o dei resti dei morti. E così il “37” si trasforma, a tutti gli effetti, nel primo carro funebre delle vittime incolpevoli dell’attentato. E, unitamente al boato della bomba e alla nuvola di fumo che lo scoppio ha prodotto, quel bus diventa uno dei simboli delle strage del 2 agosto.
I GIORNI SUCCESSIVI E LE MANIFESTAZIONI
I giorni immediatamente successivi sono carichi del lutto che la strage si porta dietro. Alle iniziative di solidarietà che mantengono alta la loro intensità si accavallano le manifestazioni politiche di protesta, non poteva essere altrimenti.
La risposta popolare si vede sin dalla sera del 2 agosto nella manifestazione di Piazza Maggiore chiamata dai sindacati. Attorno al palco improvvisato, realizzato con il cassone di un camion, si raccolgono migliaia di persone. C’è rabbia non paura, tutti quelli che sono lì non ci stanno a farsi intimidire. Molto deludente il dirigente sindacale che tiene il comizio: parla genericamente di terrorismo, quasi nessun riferimento alle altre “stragi di stato”, come se la storia non avesse insegnato nulla.
Domenica 3 agosto, in via Avesella, uno dei ritrovi storici della sinistra rivoluzionaria in città (per tanti anni sede di Lotta Continua, all’epoca spazio gestito dal Centro di Iniziativa Comunista) si tiene una riunione tra i compagni presenti a Bologna per organizzare le prossime manifestazioni di piazza. Diversi sono gli schieramenti e le posizioni dei ragazzi che partecipavano all’incontro. Ne nasce una discussione molto accesa che diventa interminabile sul contenuto dello slogan da mettere sullo striscione che aprirà lo spezzone del movimento.
Tutti però sono concordi sulla necessità di una narrazione che sia diversa da quella ufficiale delle Istituzioni. Non è pensabile che la più grande strage italiana in tempo di pace che, in un assolato sabato d’estate, ha provocato la morte di ottantacinque persone e il ferimento di oltre duecento, sia arrivata dal nulla. Le vittime sono normali cittadini che affollano i binari del nodo ferroviario più importante d’Italia, in un giorno di partenza per le vacanze estive, ma gli esecutori e i mandanti sono gli stessi delle altre stragi di Stato che hanno insanguinato il paese prima del 2 agosto ‘80. Non ci si può dimenticare i massacri di Piazza Fontana a Milano, di Piazza della Loggia a Brescia o del treno Italicus. In quei casi ad accendere le micce sono state mani fasciste, con protezioni, connivenze e responsabilità di appartenenti agli apparati dello Stato. Tutte storie rimaste per molto tempo senza spiegazioni ufficiali, senza colpevoli e senza mandanti, coperte coi silenzi, le omissioni e i depistaggi. Un’aria viziata dai troppi segreti di Stato che non può non sentirsi anche per l’attentato alla Stazione di Bologna.
Il 4 agosto si tengono una manifestazione statica e un corteo. Entrambe le iniziative hanno come epicentro piazza Maggiore. Davanti al “Crescentone” un grande palco ha preso il posto del camion di sabato sera. La tribuna è stato fasciata da un grande drappo tricolore, sul fondale un enorme triangolo rosso con la scritta: “Solidarietà con le vittime, schiacciamo il terrorismo, difendiamo la democrazia”.
Attorno al palco prendono posto i ferrovieri, poi i facchini della stazione e i lavoratori ospedalieri. Ci sono vari striscioni tra cui quello del “movimento” su quale c’è scritto: “La strage è dei padroni, nessuna delega alle istituzioni”. In piazza ci sono 30/40 mila persone. L’oratore ufficiale è il vice presidente della Provincia. Interviene a nome di tutte le Istituzioni e delle Assemblee Elettive, in diversi passaggi del comizio, le sue parole vengono coperte dai fischi che si alzano da alcuni settori di manifestanti.
Se le azioni di soccorso successive all’attentato sono riuscite a mettere da parte la contrapposizione tra sinistra istituzionale e “movimento” (elemento distintivo dell’agone politico in città), le manifestazioni che segnano la reazione politica di Bologna alla strage la fanno riemergere, in alcuni casi più forte e radicale di prima.
Il 5 agosto i compagni e le compagne del “movimento di Bologna” fanno uscire un comunicato in cui si promuove la partecipazione ai funerali delle vittime su contenuti molto precisi: “contro le carogne fasciste, contro il tentativo di compattamento attorno a questo governo e a questo Stato antiproletario, contro la ristrutturazione padronale”.
Nella nota si legge: “La strage di Bologna è stata causata dai fascisti con la collaborazione dei servizi segreti e degli apparati militari ed è stata compiuta negli interessi padronali dello Stato.
La strage prefigura un nuovo sistema reazionario e nazista: solo a ciò poteva giovare un continuo attacco alle forze del proletariato. Infatti le leggi antiterrorismo sono servite soltanto ad arrestare militanti comunisti mentre i fascisti circolano ancora in piena libertà”.
Il 6 agosto, il giorno dei funerali, Bologna è letteralmente invasa da uomini e donne che arrivano da ogni parte d’Italia per porgere l’estremo saluto alle vittime. Il funerale, come lo erano già state le manifestazioni dei giorni precedenti, assume un carattere di protesta contro le Istituzioni. Solo per 8 delle 85 vittime i parenti acconsentono alla sepoltura con i funerali di Stato, i familiari delle altre rifiutano di partecipare.
Ai margini di piazza Maggiore si ritrovano a fronteggiarsi i militanti della sinistra istituzionale, del Partito Comunista e dei sindacati, e gli attivisti del movimento che con slogan e volantini insistono sulle responsabilità nella strage degli apparati statali.
E’ il servizio d’ordine della CGIL, massiccio e compatto, che fa cordone intorno agli “estremisti” per impedirne l’entrata in piazza. C’è il sospetto che, se si fossero mischiati tra la folla, avrebbero potuto fischiare Francesco Cossiga (che se ne sta sull’attenti sul sagrato di San Petronio con le altre autorità). E le Istituzioni, a prescindere da chi in quella straziante circostanza le rappresenta, vanno “comunque” difese dal disprezzo della “ciurmaglia extraparlamentare”.
Stracciando la tessera della CGIL, un operaio che sta nella parte dello spezzone del movimento grida: “Ma perché, a Bologna, fischiare a una manifestazione è considerato grave come gettare una bomba?”
Una domanda che, a decenni di distanza, non ha ancora trovato una risposta convincente.